«IL MONDO È CAMBIATO, LA CHIESA DEVE CAMBIARE»
CONSIDERAZIONI SUL DOPO SINODO DEI VESCOVI
Riprendiamo l’Editoriale precedente e portiamo avanti la riflessione sulla conclusione del Sinodo dei vescovi, che apparentemente sembra non aver cambiato nulla e invece chiede di accorgersi del potente soffio dello Spirito del Signore che abilita la sua Chiesa a continuare con fiducia il suo compito nella storia e nel tempo, rinnovandosi e ricentrandosi sul suo Signore e Maestro.
Nella società in rapida evoluzione, nella novità epocale della presenza multietnica, nel dilagare dell’epidemia di un individualismo arrogante è emersa la lentezza del pensiero e dell’azione di comunità cristiane troppo affaticate a custodire l’esistente. L’urgenza di unire le forze trova la resistenza dei campanilismi e delle inerzie, dell’individualismo e dell’autoreferenzialità. La forza innovativa della generazione giovane è impacciata da paure e smarrimenti.
Ma il cristiano timoroso è un controsenso, perché il cristiano crede che la storia sia guidata dallo Spirito di Dio. Dobbiamo piuttosto avere una certa paura quando la nostalgia del passato diventa troppa, finendo per bloccare ogni cambiamento o far perdere fiducia nell’azione dello Spirito. Occorre sognare in futuro una Chiesa come quella descritta all’inizio del libro degli Atti degli Apostoli. In realtà anche in quella Chiesa c’erano tensioni e problemi, ma si sono lasciati convertire dall’azione dello Spirito Santo che ha aiutato a discernere in modo profetico.
Con il Sinodo appena concluso s’è tanto detto, tanto pregato, tanto scritto e riscritto che si deve essere certi che lo Spirito era all’opera. Sono emersi segni in questa direzione, segni di novità, quali slanci e prospettive che hanno ribadito la necessità di una Chiesa missionaria, anche se bisogna intendere bene cosa questo significhi. La Chiesa è missione. La missione è per il mondo. Il mondo è cambiato. La missione e perciò la Chiesa devono cambiare. Quindi un’unica missione per dire il Vangelo oggi, qui. Quello che resta un percorso di sapienza e di profezia -e che rimane problematico nel trovare il modo e la forma giusta- è come dire il Vangelo a un mondo che, oggi come ieri, non lo vuole ascoltare o lo ha smarrito.
La situazione di secolarizzazione si può leggere come la cronaca di una sconfitta e di un declino. Al contrario, la sapienza evangelica riconosce il compiersi delle parole di Gesù, che indica la presenza del Regno con le immagini del pizzico di sale, della piccola luce. La domanda, quindi, non è quanti siamo, ma se il sale conservi il suo sapore e se continui ad ardere il fuoco. Noi questo abbiamo da dare: il Vangelo di Gesù.
Da questo punto di vista missionario, o di sempre nuova evangelizzazione, anche la dimensione della Chiesa parrocchiale o di comunità pastorale riceve nuova luce. L’interpretazione sapienziale ha suggerito che è necessario, per quanto arduo, tenere insieme la capillarità della presenza delle parrocchie e la pastorale di insieme, per abitare territori più ampi e ambienti quotidiani che sembrano estranei. La costituzione delle Comunità pastorali, intrapresa da tempo nella diocesi di Milano, nasce dall’audacia di unire la vita delle parrocchie alla vita della gente che si muove senza sosta e che “abita dappertutto”.
Al di là di questa attenzione pastorale “ad intra e ad extra”, è desiderabile che l’accento nei prossimi anni sia davvero posto sulla costruzione – a volte ancora incomprensibilmente troppo faticosa – di comunità in cui ci si ami e ci si stimi; è desiderabile cioè che i cristiani sviluppino un senso di appartenenza e perfino di comunione basato sulla carità cristiana, con la logica che si è tutti discepoli, liberandosi finalmente dall’individualismo, che si appoggia più sul gusto, su quel “mi piace, non mi piace” e su una Chiesa a propria misura e secondo la propria visione, personale o di gruppo.
Questo sembra esser il primo grande compito. La voce dello Spirito emersa dal sinodo spinge alla conversione delle relazioni dentro la Chiesa. Le relazioni tra i fedeli devono essere interpretate, alla luce del Vangelo e nelle indicazioni del Concilio Vaticano II, come l’edificazione di un popolo di Dio, in cui tutti siano riconosciuti nella loro dignità di figli e figlie di Dio e tutti siano riconosciuti come componenti corresponsabili del popolo di Dio. Il riconoscimento della dignità di ciascuno comporta la partecipazione alla responsabilità della vita della comunità, nella diversificata pluralità dei ruoli. La diversificazione dei ruoli però non significa che alcuni comandano e altri obbediscono, ma che la elaborazione delle decisioni deve essere frutto di ascolto reciproco, di dialogo, di elaborazione di consensi e di decisioni adeguatamente condivise. In tutte le questioni si tratta di assumere sempre di più lo stile e il metodo sinodale. (Documento finale, 28).
Tuttavia, resta il compito, nelle Chiese locali, di tenere vivo il desiderio di annunciare il Vangelo a tutti, facendo innamorare di Dio, in esecuzione del comando di Gesù.
Il futuro immediato della Chiesa passa ancora una volta da questo compito irrinunciabile e che deve trovare le sue giuste traduzioni concrete. L’anno giubilare della speranza e il cammino per diventare discepoli credenti potranno costituire un’ulteriore spinta per il cammino della nostra comunità pastorale.
Come sappiamo, si è appena conclusa la terza fase del Sinodo dei vescovi con la stesura del documento finale.
Ne abbiamo già parlato in alcuni editoriali precedenti. Le reazioni all’assemblea dei vescovi sulla sinodalità sono variegate. Un popolo di Dio un po’ assente, tiepido o poco informato, a parte gli addetti ai lavori, clero e vescovi divisi su diverse sponde, teologi e gruppi “qualificati” che hanno “perorato” alcuni temi di punta, ma forse “troppo avanti” per la sensibilità di molti.
A seconda delle lenti che si inforcano, abbiamo un pluralismo di opinioni e prese di posizioni: Sinodo sì, sinodo no, sinodo iuxta modum…
Sinodo? ma di che cosa si è parlato, e alla fine che cosa si è ricavato? Forse per alcuni è stata persino un’esperienza deludente per le attese alte che si avevano, ma si sa che alcune riforme non sono immediate. Per altri è stata un’autentica esperienza di Chiesa ispirata dal vento dello Spirito. Al di là di tutto, credo non si possa parlare affatto di un “esercizio inutile”. È un nuovo volto di Chiesa che – lentamente – sta prendendo forma. Pur tra difetti e limiti (troppi temi, ad esempio, e molti di grande portata teologica, altri condizionati dalla loro portata attuale), il Sinodo qualche merito indubbiamente lo ha. Ha messo sul tavolo temi delicati e controversi, fino a ieri materia “vietata” alla discussione; ha fatto emergere la multiformità – e forse anche le dissonanze – del mondo cattolico globale, che non è solo quello occidentale e che manifesta sensibilità assai diverse su svariate questioni; ha fatto parlare credenti “lontani” tra loro, mettendo gli uni in ascolto degli altri.
È stato un esercizio non solo di metodo ma anche di sostanza, che riguarda la forma di Chiesa.
È plausibile immaginare che molte questioni rimarranno “aperte”, necessitando di approfondimenti ponderati e “fuori dalla mischia”. Forse la vera sfida della Chiesa sinodale sarà di imparare a camminare convivendo con la pluralità senza pregiudicare l’unità, uscendo da un secolare paradigma “monolitico”. Una Chiesa, insomma, potremmo dire con una battuta: un poco più “cattolica” e un po’ meno “romana”.
Ora vogliamo cercare di fare ordine e riportare alcune considerazioni sintetiche e riassuntive di quell’esperienza aiutati anche dal nostro arcivescovo. Stimolati da quelle considerazioni approfondiamo ulteriormente lo sguardo verso il domani della Chiesa e quindi anche delle nostre comunità cristiane, continuando la riflessione già avviata.
Uno sguardo superficiale può riconoscere soprattutto segni di stanchezza e di scoraggiamento. Le statistiche dicono di numeri che si riducono, di lontananze che crescono tra la Chiesa e il contesto in cui è presente. Ma uno sguardo più attento, capace di vedere la verità della Chiesa, riesce a cogliere le situazioni e le persone nella luce di Dio. Di fatto oggi diminuiscono i praticanti ma dobbiamo riconoscere che aumentano le persone in ricerca. Sono tanti poi, uomini e donne, giovani e meno giovani, che desiderano una vita di fede e spirituale più autentica e intensa.
Dobbiamo, pertanto, riscoprire che chi fa innamorare di Dio è la Buona Novella del Vangelo e non tanto le pratiche obsolete dei ritualismi svuotati dalla loro luce. Il fascino del messaggio cristiano è nel riempire il cuore di chi è alla ricerca di uno sguardo amico (non vi chiamo più servi ma amici Gv 15,15) e non è dato all’insistere su una morale ferrea e canonista che non tiene più conto di quell’umanità nella quale Cristo stesso si è incarnato e della quale ha avuto un’empatia liberante, benché esigente nella conversione.
C’è bisogno di più teologia e meno di morale, o almeno di una morale pienamente illuminata dalla teologia. La teologia è l’annuncio della Buona Novella, è un discorso su Dio che si piega, quasi si china, sugli uomini. La morale invece è concentrata sugli uomini che cercano – frustrati – di “adattarsi” a Dio. Ciò che invece fa innamorare di Dio è la teologia e non la morale come serie di comportamenti legiferati ma non motivati. Non è più solo questione del “si deve” o del “non si deve”; l’apporto delle scienze umane permette di riconsiderare appieno il valore di un Dio che si è fatto pienamente uomo, tranne che nel peccato, e che proprio per questo è in grado di comprenderlo e di amarlo ben oltre le sue fragilità e fatiche a trovare la via della vita. Anche nella liturgia è un po’ così: la liturgia moderna ha avuto un momento di grande crisi quando si è ridotta a parlare solo dell’uomo o a far parlare solo l’uomo. La liturgia invece deve cantare Dio, deve essere teologica, deve far entrare nel fascino del mistero di Dio, ma sempre a partire dal cuore dell’uomo, dalla sua povertà e dal suo bisogno di Dio, del Dio dell’amore e della bellezza.
Rimpiangere il passato, rassegnarsi al declino oppure essere uomini e donne di fede matura? Non è forse il caso di ritornare un po’ di più al Vangelo e a ricordarci che siamo chiamati ad essere sempre di nuovo discepoli credenti? Così facendo avremo un’opportunità in più per contagiare, per attrarre, per affascinare. don Maurizio