VACANZA: OCCASIONE PER ESSERE “SVEGLI”
OVVERO STUPIRSI PER CIÒ CHE CI CIRCONDA (PRIMA PARTE)
C’è un esercizio che cerco di mantenere ogni volta che mi capita di fare qualche escursione in montagna: guardarmi attorno e osservare stupito la varietà e la ricchezza di forme e colori soprattutto dei fiori. Ranuncolo di montagna o botton d’oro, ginestrino, pulsatilla alpina, tarassaco, sassifraga, eliantemo, papavero alpino, ciclamino, nigritella, artemisia (genepy), genziana, rododendro, stelle alpine… sono solo alcuni nomi di un’infinita tavolozza di colorati e delicatissimi fiori che sbocciano in questo periodo nelle valli dolomitiche e alpine sopra i 1500 metri.
Ma non basta, perché lo sguardo meravigliato spinge al pensiero.
Se il mare è orizzontale e, con quella linea all’orizzonte che unisce cielo e terra, dice che la vita è un viaggio verso l’infinito, la montagna, invece, dice coraggio, perché nasconde l’orizzonte e ti chiede, per portarti faccia a faccia con il cielo, di salire verso l’alto perché solo così puoi scendere verso la profondità della tua interiorità. Di fatto dopo aver contemplato l’oltre, dalla cima non puoi proseguire se non scendendo. Ma già la salita è un discesa nel più profondo del tuo intimo; e questo certamente richiede coraggio, ma anche impegno, fatica, sudore, perseveranza, entusiasmo.
Orizzontale e verticale sono le coordinate dello spirito: viaggio e ascesa. Quando progettiamo le vacanze decidiamo tra mare e montagna, quasi fossero due modi di dire di cosa hanno bisogno l’anima e il corpo per riposare. Così nelle mie camminate o ascensioni ho potuto osservare non solo le aspre vette o gli insidiosi ghiacciai, ma le decine di fioriture che fanno brillare valli e rocce. Mi stupisce sempre vedere le variazioni e le sfumature di colore, a volte delicate altre volte accentuate, diverse per ogni fiore: l’evoluzione non trascura mai la bellezza. Quella bellezza che è necessaria alla felicità come scriveva Baudelaire: «Abbandonando la noia e la profonda tristezza / che rendono pesante l’esistenza, / felice chi plana sulla vita e comprende senza sforzo / il linguaggio dei fiori e delle cose mute!».
Che cosa significa e che cosa vuol dire questo per noi che stiamo vivendo un’altra estate della nostra esistenza?
Oggi gran parte della nostra infelicità dipende dall’avere un contatto pressoché consumistico con le cose della natura. Quand’è stata l’ultima volta che abbiamo toccato, annusato, contemplato dei fiori? Forme della natura e colori come eventi dell’anima, insieme ad un pensiero stupito, restituiscono alle persone ciò che hanno perduto. Imparare a vedere il mondo attraverso i colori e ricominciare a soffermarsi su ciò che prima trascuravamo permette allo stupore di guarire la tristezza di cui parla Baudelaire. Per tornare a stupirsi basta ricevere il mondo e il suo miracolo, cosa che non abbiamo più il tempo e la pazienza di fare.
Si racconta di un’affascinante storia del Buddha: «Passa sette anni nella foresta a studiare se stesso, a meditare. Contempla la verità della sofferenza, le sue cause, la sua estinzione e il percorso di liberazione e si risveglia. Allora, cammina fuori dalla foresta, verso gli uomini. Incontra un uomo che, vedendolo raggiante, lo avvicina e chiede: “Sei un dio?” “No”, risponde il Buddha. “Sei un essere angelico allora?” “No”, risponde il Buddha. “Un dèmone?”. E al suo ennesimo diniego: “Allora sei un uomo come tutti?” “No – risponde il Buddha – io sono Sveglio”».
Un aggettivo che diventa un nome, una qualità che porta a una modificazione totale del oggetto e della sua vita. Ma anche l’annuncio cristiano non si sottrae a questo invito ad essere “svegli” per cogliere i segni della Salvezza nel tempo che ci è dato di vivere, non distratti ma concentrati su ciò che ci circonda: «è ormai tempo di svegliarvi dal sonno perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti» (Rm 13, 11-13).
OVVERO POSARE DI NUOVO L’IO DENTRO SE STESSI (SECONDA PARTE)
A proposito dell’essere «svegli» (vedi la conclusione dell’Editoriale precedente), riprendendo in mano il Vangelo, mi viene in mente una illuminante parabola evangelica: Gesù disse ai suoi discepoli: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà svegli; in verità vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!» (Lc. 12).
A proposito, poi, della meraviglia che stimola il pensiero e dello stupirsi per ciò che ci circonda se impariamo ad osservare e ad essere profondi, mai banali e superficiali, anche la vacanza può essere un’opportunità preziosa. Sì, perché il periodo estivo è «vacanza» (che letteralmente vuol dire «vuotezza») solo se quel «vuoto» o «libertà» significa silenzio, cioè apertura alla realtà, capacità di ascolto e prontezza di sensi e pensiero. La cultura e la spiritualità hanno il compito di «svegliare» l’uomo dal sonno in cui precipita quando trascura la proprio vita interiore, lasciandosi irretire da illusioni e miraggi proposti o imposti.
Anche Gesù fa coincidere la vita «beata», felice, con la vita «sveglia». Stupisce infatti il ribaltamento di ruolo del servo: il padrone ritorna dalle nozze e si mette lui a servire il servo che ha trovato «sveglio», come dire che la vita si mette al servizio di chi tiene gli occhi aperti. Chi è sveglio, da servo diventa signore: la vita è tutta a mia disposizione solo se mi metto a servirla, cioè sono aperto a riceverla e rispondo al presente.
Possiamo tentare di suggerire alcuni «compiti» per essere «svegli» e quindi «beati», evitando il «sonno» che porta alla fine delle «vacanze» ad essere «svuotati» e non «pieni» di ciò che si è ricevuto nello spazio interiore.
«Esser svegli» è il segreto della vita felice: anche nel quotidiano diciamo a chi sa affrontare la realtà che è sveglio, aggettivo che viene da una antica radice che indicava la sentinella che vigila e protegge. Per essere felici bisogna vigilare, esser desti, non lasciarsi sfuggire il miracolo anche minuscolo del presente, come la policromia dei fiori di cui parlavamo. Me ne sono accorto perché ero «sveglio» tornando a casa con un po’ di mondo in più nel cuore e nella mente.
E infatti mi sono ritrovato con una gioia che nessuno potrà più togliermi: essere «beati» in fondo non è difficile, basta non essere distratti o addormentati, rimanere vigili, rispondendo alla vita nel suo continuo far l’appello a ciascuno di noi attraverso cose, persone, eventi…
Quello che sto dicendo non è l’atteggiamento sentimentale di chi ha tempo da perdere, ma una sfida coraggiosa per questo nostro tempo sempre di corsa, distratto, chiassoso e mai veramente «in vacanza», cioè aperto, e infatti neanche in vacanza riusciamo veramente a riposare, perché «riposare» significa posare di nuovo l’io dentro se stesso, quando chissà dove era finito. Il nostro non riuscire a dare valore alla realtà che incontriamo è la prima causa di tristezza, noia e disperazione. Cominciamo oggi a far «vacanza» dentro di noi. E le nostre «vacanze» saranno «beate», fosse anche solo per un colore che non avevamo mai incontrato.
In fondo è esattamente l’atteggiamento del servo della parabola tutto attivo con una tensione paradossalmente rilassante, tipica di chi è in fermento per l’ “attimo fuggente” e predisposto all’attesa: vesti cinte ai fianchi e lampada accesa sono tipiche del pellegrino sempre in cammino, sempre «sveglio», carico di attesa per il futuro a cui però non sfugge niente dei suoi singoli passi che compie.
don Maurizio.