LA GRAZIA E LA RESPONSABILITÀ PER LA NOSTRA COMUNITÀ CRISTIANA DI UNA PRIMA MESSA E DI DIVERSI ANNIVERSARI SACERDOTALI (PRIMA PARTE)
La prima santa Messa di don Piercarlo, di un giovane nel pieno della sua vita e del suo completo ingresso nel ministero a servizio delle parrocchie alle quali sarà inviato, interroga e provoca positivamente la nostra comunità cristiana. Così pure alcuni significativi anniversari di ordinazione sacerdotale dei preti della nostra comunità (don Lino: 70 anni, don Giovanni: 60 anni, don Paolo: 10 anni, e altri che conosciamo) rimandano il nostro pensiero alla vita come vocazione, anzi al fatto che tutti viviamo di una vita ricevuta e che, come tale, deve essere spesa responsabilmente con perseveranza e fedeltà.
Non solo: fare festa ai nostri preti implica riflettere sull’intera comunità perché pastori e fedeli, in virtù del comune battesimo, sono insieme chiamati a partecipare attivamente e sinodalmente alla missione che Cristo ha affidato alla sua Chiesa. Significative le parole di papa Francesco: «Vorrei che tutti noi avessimo nel cuore e nella mente questa bella visione della Chiesa: una Chiesa protesa alla missione e dove si unificano le forze e si cammina insieme per evangelizzare; una Chiesa in cui ciò che ci lega è il nostro essere cristiani battezzati, il nostro appartenere a Gesù; una Chiesa dove fra laici e pastori si vive una vera fratellanza (comunione), lavorando fianco a fianco ogni giorno, in ogni ambito della pastorale, perché tutti battezzati».
Se non ci lasciamo prendere solo dai sentimenti e dalle emozioni, che pur hanno diritto di esserci e di manifestarsi, dovremmo perlomeno riconoscere che siamo invitati da questi avvenimenti a “ripartire da Dio”.
Ripartire da Dio vuol dire confrontare con le esigenze del Suo primato tutto ciò che si è e si fa. Se un giovane – e i suoi 15 compagni – decidono di giocare totalmente la loro libertà, la loro intelligenza, le loro migliori energie e la loro fede, significa che solo il Signore è la misura del vero, del giusto e del bene. Vuol dire tornare alla verità di noi stessi, rinunciando a farci misura di tutto, per riconoscere che Lui soltanto è la misura che non passa, la “pietra d’angolo” che dà fondamento, la ragione ultima per vivere, amare, morire. Vuol dire guardare le cose dall’alto, vedere il Tutto prima della parte, partire dalla Sorgente per comprendere il flusso delle acque. Vuol dire sentirsi discepoli-amici del Signore e non più servi.
Già questo basterebbe per sentirci chiamati tutti in causa – personalmente e come comunità – nel verificare e spronare il nostro modo di vivere da cristiani. Lo possiamo fare domandandoci quale tipo di prete attendono le nostre parrocchie ma anche come, di riflesso, devono essere le nostre comunità cristiane. Chi sono questi giovani che diventano preti? Che cosa vuole dire oggi per un giovane diventare prete? Cosa ci dicono preti con alle spalle decenni di esercizio nel ministero e che nonostante l’età continuano a servire la comunità cristiana? E noi cosa ci aspettiamo come comunità dai nostri preti che vivono tra noi? Siamo disposti a metterci in gioco anche noi in questo avvenimento? Ma, in fondo, che tipo di prete ha bisogno la Chiesa, le persone e il mondo oggi?
Dando seguito al precedente Editoriale, che terminava con alcune domande stimolanti la riflessione sulla figura del prete in relazione alla sua comunità, e in attesa di avere anche da parte vostra dei riscontri sull’argomento, tentiamo comunque di dare alcune risposte. Sei parole sintetiche potrebbero guidarci nelle risposte e in questa riflessione, in un momento così particolarmente complesso; sei parole per stimolare tutti noi a trovarne altre che ci aiutino a vivere bene il dono del battesimo e del ministero ordinato.
La prima parola: il VANGELO
Non è, e non può essere, una parola scontata e il suo contenuto non può più essere dato per presupposto. Ogni cosa che il prete fa, si rifà o dovrebbe rifarsi al Vangelo; il prete è mandato perché il Vangelo sia annunciato a tutte le persone. In questo modo riafferma che il Vangelo è origine, radice di tutta l’esistenza cristiana. Oggi più che mai occorre far tornare continuamente la comunità cristiana alle origini della propria vita e della propria missione. Occorre tornare sempre di nuovo alle radici. Occorre tornare a ciò che ha generato i riti, le forme di convivenza, le istituzioni, le iniziative, le varie attività concrete, le organizzazioni della comunità cristiana per ridare loro sapore, senso, radicazione profonda. Il prete – e insieme con lui tutti i battezzati – deve formarsi e formare a questo gusto dell’essenziale, tornare a ciò che è veramente fondativo della comunità cristiana e delle sue tante sovrastrutture.
La seconda parola: lo SPIRITO
Anche qui dobbiamo evitare considerazioni scontate. Il dono dello Spirito è per essere guida in un cammino di appropriazione profonda, personale e comunitaria, della fede, storicamente determinata, localizzata qui ed ora. Appropriazione personale della fede significa far diventare il Vangelo annunciato un principio di vita e di giudizio su ciò che sto vivendo; vuol dire imparare l’esercizio del discernimento – esercizio che non siamo molto abituati a fare – della preghiera contemplativa, della direzione spirituale. È questo ciò di cui hanno bisogno le nostre comunità cristiane. È questo ciò che è richiesto ai preti oggi: che loro stessi vivano una forte esperienza spirituale e si preparino ad essere non semplicemente distributori di sacramenti, non i capi della comunità, ma uomini spirituali, uomini capaci di far percepire agli altri i sottili, profondi, penetranti movimenti dello Spirito, uomini che siano capaci di interpretare la storia delle persone. Uomini che guidino non comunità psicologiche, sociologiche o super organizzate in attività da “pro-loco”, ma comunità spirituali, comunità nelle quali si è in grado di riconoscere di volta in volta la voce dello Spirito e i segni con cui lo Spirito guida la comunità.
La terza parola: la CROCE
La vita secondo lo Spirito è la capacità di partire da ciò che è ultimo, da ciò che è debole, stolto agli occhi del mondo (1Cor 1,27) per rivelare con maggior forza la presenza operante e potente di Dio. Nella comunità cristiana d’oggi come anche nella società e nella cultura attuale, accanto a tanto buon grano ci imbattiamo continuamente in tanti casi e situazioni di fragilità e povertà, di indifferenza e di lontananza da Dio. Un prete oggi non deve spaventarsi di tutto questo, deve abituarsi a vivere la logica della croce, a dire “io partirò dagli ultimi, da chi è lontano”. La vita secondo la croce di Cristo significa partire da lì, partire da queste situazioni che, più da vicino, assomigliano alla croce, alla disfatta di Gesù Cristo, nella certezza che la forza dello Spirito proprio da lì parte per avviare un cammino di speranza, di pienezza di vita e di salvezza. Questo deve fare il prete oggi, questo devono testimoniare oggi le nostre comunità cristiane.
Nei precedenti editoriali – che vi invito a rileggere – abbiamo indicato le prime tre parole di carattere fondamentale per dire quale figura di prete, oggi, la chiesa e il mondo hanno bisogno; ora continuiamo la riflessione indicando altre parole che vorrebbero dire alcuni atteggiamenti profondi, alcune doti spirituali, alcuni orientamenti di stile che dovrebbe coltivare il prete oggi, ma -anche- che le comunità dovrebbero esercitare per aiutarlo e sostenerlo nel suo ministero. Tutto questo può diventare un itinerario di conversione anche per la nostra comunità pastorale.
La prima parola, il primo stile è: solitudine.
Dobbiamo precisare di cosa si tratta per non ingenerare ambiguità e fraintendimenti. Qui la solitudine è la capacità da parte del prete di stare con Gesù, suo unico Signore e Maestro. In questo nostro contesto sociale e culturale, in cui occorre annunciare con coerenza e con n radicalità il Vangelo, è indispensabile che uno viva un rapporto profondo, radicato e personale con Gesù Cristo. Per cui, pur attraversando prove e difficoltà, sorge spontaneo dire: “Tu sei davvero la mia gioia, non ho nient’altro che te nella mia vita. Se trovo, certo, anche una struttura, un’istituzione, una comunità o una famiglia che mi aiuta, te ne sono grato; però, Signore, quand’anche io fossi solo, non ci fosse nulla che mi dà una mano, non ci fosse neanche un fratello di fede che mi sostiene e persino i superiori non mi
capissero, tu, Signore, mi basti; io con te ricomincio da capo”. È importante questo senso profondo di una capacità di stare soli con Cristo come unica perla preziosa che appaga un’intera esistenza senza isolarla, ma proiettandola al servizio dei fratelli. Gesù e la Chiesa
sono gli unici Signori della vita di un prete, che egli deve servire con infinita umiltà e con immensa docilità e disponibilità. Ma lo stile della solitudine come capacità di stare con il Signore è particolarmente provocatorio persino per la comunità cristiana che corre il rischio di lasciarsi condizionare dalla logica dei “social”, continuamente connessi e continuamente tentati di comunicare senza prima riflettere, silenziarsi e prendersi la calma necessaria per pensare e per pregare.
La seconda parola è: fraternità.
In questo momento della vita della Chiesa, è quanto mai indispensabile che il prete si senta partecipe di una comunità, che è anzitutto la comunità presbiterale, i suoi fratelli nel presbiterio insieme col Vescovo. E poi fraternità, collaborazione, con tutta quella fioritura di carismi, di vocazioni, di ministeri antichi e nuovi che sono presenti, per un dono misterioso e meraviglioso dello Spirito, nella comunità
cristiana. Un prete che fa tutto da solo o coltiva solo i suoi interessi, sganciato da ogni reale collabora zione, è una figura inaccettabile, è una figura improduttiva. Soltanto un prete che vive intensamente la fraternità, la comunione con gli altri fratelli del presbiterio, e con tutti i fratelli di fede variamente impegnati, è un prete che interpreta le esigenze di ritorno al Vangelo, di obbedienza allo Spirito e di fedeltà alla missione. Non si tratta semplicemente di “lavorare insieme per la stessa causa”, ma di sentirsi legati da un vincolo profondo che nasce dall’essere stati scelti dal Maestro per condividere con lui e con gli altri scelti da lui la stessa passione per il Regno: si tratta di un legame ancora più forte di quello di sangue, un legame frutto della preghiera e della misteriosa chiamata del Signore. Dentro questa dinamica di fraternità che tende alla comunione è coinvolta la stessa comunità parrocchiale, che ha la responsabilità di costruire rapporti all’insegna della stima reciproca, dell’aiuto vicendevole, del sostegno umano e cristiano. Il monito di Gesù è palesemente chiaro: da questo vi riconosceranno come miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri. (Gv 13, 31s)
La terza parola è sinodalità.
Se per un pastore lo stile della fraternità è costitutivo del suo essere, oggi per lui è decisiva una
vita con una buona capacità relazionale, con un’abitudine a tener conto degli altri, a lavorare
insieme con gli altri, a pensare insieme con gli altri la vita.
Tra gli atteggiamenti sinodali c’è l’esercizio del discernimento come capacità di ascolto, dialogo e di saper dare indicazioni concrete per i cammini di vita e di fede. Il prete oggi deve avere un’infinita capacità di ascolto rispettoso della storia della comunità nella quale è inserito, di capire, di non classificare le persone ma di valorizzarle secondo le loro doti e carismi. È indispensabile che uno mentre annuncia il Vangelo, sia pronto a percepire tutti i dinamismi, gli itinerari spirituali che il fratello sta percorrendo. Pronto a raccogliere tutti i contributi costruttivi che vengono da tutti i fedeli che sanno dimostrarsi “pietre vive” (1Pt 2,5) per l’edificazione del tempio spirituale che è la Chiesa.
Sono solo alcune parole di stile, ma chissà quante altre ne possiamo trovare per un prete e per una comunità pastorale che vogliono davvero vivere il compito di essere la Chiesa del Signore oggi. don Maurizio