IL PERDONO E LA SPERANZA
I n questo anno santo del giubileo e in questo tempo di quaresima che ci prepara alla Pasqua, siamo invitati e sollecitati non solo ad accostarci al sacramento della confessione o riconciliazione ma anche a convertire la nostra vita al bene. Anche la nostra comunità pastorale ha dato avvio a una formazione e riflessione biblica, storica, teologica e rituale sul sacramento della confessione.
Queste circostanze ci sollecitano a riflettere sul tema delicato e complesso del perdono, della riconciliazione con Dio, con noi stessi e con gli altri. Il perdono, infatti, richiede un percorso interiore prima ancora che esteriore, perché non sia banalizzato; in taluni casi la sua esternazione rischia di essere stucchevole o generare reazioni di insofferenza e rigetto. Il nostro dire “chiedo perdono” oppure “ti perdono” deve essere frutto di un processo profondo, certamente umano ma che ha le sue sincere radici nella fede.
Dobbiamo però spesso costatare che oggi al massimo si chiede scusa. Magari consigliati non dalla propria coscienza ma dal proprio avvocato. Ma quando sono in gioco la vita e la dignità delle persone allora “scusa” non basta più. È una parola inadeguata, banale, suona falsa.
Perfettamente in sintonia con la banalità di questo nostro tempo, tutto ma proprio tutto si confonde: il bene e il male, il sapiente e lo sciocco, la profondità e la superfice, il vero e il falso, il bello e il brutto… Inoltre, non siamo più nemmeno in grado di distinguere tra sbaglio, errore, colpa, peccato equiparando tutto allo stesso livello, autogiustificandosi e autoassolvendoci generando ulteriore incapacità nel distinguere bene e male.
In questa confusione siamo chiamati ad andare oltre. E alla persona a cui abbiamo fatto del male dobbiamo imparare a chiedere perdono. Non c’è altra parola che possiamo pronunciare. “Scusa” si lega etimologicamente a colpa, si fissa a quella mancanza, a quel brutto gesto, al male compiuto. Ma non va oltre. Perdono, invece, ha la sua radice nell’indoeuropeo “da”, cioè dono. È una parola che porta in sé un movimento, un cambiamento, una conversione. Di più: un miracolo, perché dal male può nascere un bene, misteriosamente, oltre ogni ragione, oltre noi, oltre il nostro limite, le nostre mancanze. II perdono e la conseguente riconciliazione sono capaci di ricomporre le ferite, non come un adesivo che rimette insieme i cocci, e cocci restano. Ma nel segno di una vita rinnovata, di una luce ritrovata.
Saper chiedere e offrire perdono sono nella logica della speranza che genera nuove possibilità e non rinchiude nell’impossibilità dell’irrecuperabile, del “tanto non c’è più niente da fare”, del “gettare la chiave”. «Sperare equivale a vivere: l’uomo, infatti, vive in quanto spera», diceva il cardinale Carlo Maria Martini. Si invoca il perdono con un cuore pentito, si offre il perdono con la misericordia nel cuore. E solo dal perdono può germogliare la speranza e si aprono orizzonti nuovi e inattesi.
Ecco perché il Giubileo, e non solo questo Giubileo, può essere definito sempre “Giubileo della Speranza”: chi cerca il perdono, chi si mette in cammino per essere perdonato, chi supplica di essere redento, non solo è liberato dalla colpa, ma riceve in dono la speranza. Charles Péguy attribuisce al Creatore queste parole: «la fede che più amo, dice Dio, è la speranza. Ciò che mi sorprende è la speranza. E non so darmene ragione. Questa piccola speranza che sembra una cosina da nulla. Questa speranza bambina, immortale», perché «la speranza vede ciò che ancora non è e che sarà. Lei ama ciò che ancora non è e che sarà. Nel futuro del tempo e nell’eternità».
La speranza può essere paragonata all’essere figli; infatti, solo chi è figlio può vivere di speranza, perché all’origine della sua vita c’è la certezza di essere amati; e ogni uomo e ogni donna su questa terra è figlio/a.
La speranza è lo sguardo che il Dio Creatore volge alla bellezza della sua amata creatura, e insieme è lo sguardo rivolto al Cielo di ogni uomo e ogni donna che non si rassegna. Il padre Abramo è l’icona di chi non si rassegna. La sacra Scrittura ci aiuta a mettere a fuoco il legame strettissimo tra la fede e la speranza. Abramo “credette, saldo nella speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18). La nostra speranza non si regge su ragionamenti, previsioni e rassicurazioni umane; e si manifesta là dove non c’è più speranza, dove non c’è più niente in cui sperare, proprio come avvenne per Abramo, di fronte alla sua morte imminente e alla sterilità della moglie Sara […] Noi siamo convinti che Dio ci vuole bene e che tutto quello che ci ha promesso è disposto a portarlo a compimento? […] C’è un solo prezzo da pagare: “aprire il cuore”. Aprite i vostri cuori e […] Dio vi porterà avanti, farà cose miracolose e vi insegnerà cosa sia la speranza» (papa Francesco, udienza del 29 marzo 2017).
Francesco d’Assisi dopo avere ricevuto le Stimmate compone una preghiera che è una visione, un canto grato al Signore per quel che ha visto e vissuto. E il più bell’inno alla speranza e nasce da un’esperienza di lanciante dolore non solo dello spirito ma anche della carne stessa.
Francesco si rivolge pieno di gioia a Dio con il tu, come un figlio si rivolge al Padre, e solo due attributi, bellezza e speranza, sono ripetuti: «Tu sei santo, Signore Iddio unico, che fai cose stupende. Tu sei forte. Tu sei grande. Tu sei l’Altissimo. Tu sei il Re onnipotente. Tu sei il Padre santo, Re del cielo e della terra. Tu sei Trino e Uno, Signore Iddio degli dèi. Tu sei il bene, tutto il bene, il sommo bene, Signore Iddio vivo e vero. Tu sei amore, carità. Tu sei sapienza. Tu sei umiltà. Tu sei pazienza. Tu sei bellezza. Tu sei sicurezza. Tu sei la pace. Tu sei gaudio e letizia. Tu sei la nostra speranza. Tu sei giustizia. Tu sei temperanza. Tu sei ogni nostra ricchezza. Tu sei bellezza. Tu sei mitezza. Tu sei il protettore. Tu sei il custode e il difensore nostro. Tu sei fortezza. Tu sei rifugio. Tu sei la nostra speranza. Tu sei la nostra fede. Tu sei la nostra carità. Tu sei tutta la nostra dolcezza. Tu sei la nostra vita eterna, grande e ammirabile Signore, Dio onnipotente, misericordioso Salvatore».
a speranza può nascere solo da un cuore riconciliato, da un cuore che ha perdonato, che ha sanato le ferite. Non c’è speranza nell’orgoglioso, non c’è speranza in chi odia, non c’è speranza in chi dimentica il suo essere figlio. Solo chi ama la vita spera e chi spera ha sete di bellezza. E la bellezza è il volto di Dio perché è il volto dell’amore: questa è la nostra origine, questo è il nostro destino. don Maurizio.