Tic Tac, Tic Tac… Il Tempo Passa
Siamo agli ultimi giorni dell’anno. Siamo ai primi giorni dell’anno nuovo.
Un altro anno è passato, un altro anno è iniziato. Il tempo scorre inesorabilmente. Ma come possiamo dare valore al tempo, vivere al meglio il tempo, governarlo pur nella sua irreversibilità e non lasciarci mangiare, inghiottire dal tempo? Come possiamo renderlo un “kairos”, cioè, fare di ogni momento, di ogni tempo o attimo che viviamo un momento, un tempo giusto, opportuno, supremo, un’occasione favorevole, un tempo di grazia straordinaria?
Oggi è diventato normale subire il tempo anziché abitarlo. Secondo la mitologia greca, era il dio Cronos (altra parola per parlare di tempo, da cui cronologia) a divorare i suoi figli: il tempo cronologico scorre fino alla inesorabile morte. Anche oggi, in qualche modo, il Tempo sembra divorare i figli che genera, fino a che non ci si stacca da lui e lo si combatte. Ma come combatterlo o, meglio, come viverlo?
Il tentativo di dare una risposta a questi interrogativi è quanto mai opportuno per le nostre generazioni. Infatti, la frattura tra luce e tempo è una ferita aperta nel corpo dell’uomo di oggi. Il consumismo frantuma l’esperienza del tempo del giorno e della notte come alternanza sapiente già descritta dalla prima pagina della Bibbia (la creazione): le luci artificiali, invece, divorano il sonno. I primi a pagarne le conseguenze sono i ragazzi (da quando esistono gli smartphone, dormono in media un’ora in meno con conseguenze negative sulla loro salute psicofisica). Il sonno è vita, non un caricabatterie, né, ancora peggio, una malattia, a cui presto la chimica risponderà diminuendone le ore, per averne di più per «fare» e «consumare» di più. Dopare il tempo è un’illusione tossica.
Ogni volta che l’uomo si allontana dal ticchettare di luce e buio, Cronos torna a divorare i suoi figli. Espressioni come «ottimizzare il tempo» ci illudono di esser noi a misurare il tempo e non lui a misurare noi, così ci abbandoniamo all’illusorio miraggio di «guadagnarlo» accelerando o aumentando le attività. Definire il tempo in termini di «denaro», «spreco», «perdita» tradisce il fatto che oggi pensiamo di fermarlo con la «produzione», con «l’attivismo».
Viviamo in modo frenetico non perché ci manca tempo, ma perché ci manca senso: i clacson suonano allo scattare del verde, il passo veloce aggredisce la strada, come se da quei secondi dipendesse la salvezza. Senza esperienza della durata, la vita è percepita come continua perdita da limitare. L’unico modo per non essere «tagliati» dalle lancette è so-stare (saper stare), che non è passare il tempo, ma fare esperienza della durata: abitare il tempo.
«Abitare» è la forma frequentativa del latino «habere» (avere): chi abita «continua ad avere», è padrone, non servo. Non ha tempo chi non lo abita. Così il tempo acquisisce valore, non in base a ciò che facciamo, ma se siamo interiormente «liberi» o «servi» nel fare le cose. Se facciamo le cose con passione facciamo esperienza della durata, quelle ore aprono il tempo, lo vincono perché sono vive e piene di senso. L’«istante» diventa «stare in», indugiare e soggiornare, luminosa durata, e non ripetizione da cui fuggire. Qualsiasi cosa facciamo richiede tempo, e quel tempo è libero o servo in base al senso che gli diamo. Purtroppo, oggi il lavoro anziché mezzo per ottemperare alle necessità della vita, servire gli altri e, nei casi più fortunati, migliorarsi, è diventato il fine stesso della vita o, a volte, persino condanna. Si vive per lavorare, anziché il contrario.
Il cristianesimo invece, incentrato sull’Incarnazione di Dio, risolve questa drammatica opposizione: l’Uomo-Dio fino a 30 anni è stato un falegname e questi anni non sono meno importanti dei tre da maestro e guaritore. Il lavoro nella cultura cristiana è mezzo di salvezza, partecipazione alla creatività divina. Allora il tempo diventa durata solo quando, mentre si fa ciò che si deve, si trova l’occasione per trascendersi, cioè per amare. Non si tratta quindi di fare meno, ma di fare avendo in mente un senso e un ordine. Il tempo che libera genera stanchezza, non sfinimento, Il tempo lo si vince «contemplando», cioè quando si ripara la separazione di corpo e spirito. L’azione senza contemplazione diventa schiavitù: non occupa, pre-occupa. Contemplare ha la stessa radice di tempo: significava osservare un ritaglio di cielo, da cui la parola «tempio» (recinto sacro). Se il tempo non è un limite che apre sull’infinito, ci dilania: la trasformazione della domenica, da giorno di relazioni a giorno di acquisti o di “fuga”, è una vera e propria vivi-sezione.
Si guadagna tempo solo amando, perché amare rende il tempo «durata». Il tempo libero è quello «liberato per» non semplicemente «da». Solo quando ci diamo anima e corpo, lo scorrere del tempo rallenta, anche se siamo impegnatissimi, perché a segnarlo non è il passo misurabile dagli orologi: il susseguirsi orizzontale dei secondi.
L’amore apre la dimensione verticale del tempo, non misurabile, perché è durata: un secondo si dilata e diventa un secolo. Verticale è il tempo dell’artista impegnato nell’opera, verticale è il tempo della madre in attesa, verticale è il tempo delle relazioni vere, verticale è il tempo della preghiera, verticale è il tempo del lavoro appassionato, verticale è il tempo delle foglie più belle prima di cadere, verticale è il tempo delle carezze, verticale è il tempo del perdono, verticale è il tempo dato a un figlio o a un alunno anziché al cellulare… Il tempo verticale non divora, ma vola. Diventa nostro, non ci può essere più strappato.
Il tempo c’è, ma siamo noi a scegliere per chi è. Il tempo è taglio (lancette che tagliano il tempo) che, per chi sa abitarlo, diventa tempio (qualcosa di sacro), invece resta tomba, pancia di Cronos, per chi lo subisce.
Se diamo tempo, cioè senso, al tempo, ci stupiremo di quanta luce può sprigionare ogni ora, il tic-tac segnerà il ritmo di ciò che dà vita non di ciò che la toglie, perché il tempo, per chi lo abita, cioè per chi ama, non passa: dura, questo rimane vero anche se è passato un anno e ne è arrivato un altro. don Maurizio.